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Andare

(16.5.1953)

 

Non più a questo tavolo frusto,

non più in questa stanza affollata

di inutili cose,

rimarrai castigata

mia vita.

Ai mobili di vecchio gusto,

ai libri, ai quadri d'autore

ignoto e ai ricordi

più falsi di baci d'amore.

Non più.

Domani sarò povero povero,

domani sarò senza più niente,

partirò, come un emigrante,

per non so quali paesi.

Ma lontano, sì, lontano

che non riveda più la mia casa,

che non raggiunga un pianto di mamma

me vagabondo.

Domani sarò un povero mendico,

questa  —  forse  —  è la mia strada:

oggi sono troppo poco straccione

e troppo poco poeta.

Mangiare pane di frumentone,

bere l'acqua dei fontanili,

ogni notte un letto nuovo in fienili

che sanno di grilli e di sole.

Sedere su bianche pietre

nelle piazze polverose,

sulle scale di antiche chiese

silenziose e un poco tetre.

Guardare tutto quello che passa

uomini bestie nuvole giorni

e sentire che nulla ti tocca,

che non ti da pensiero

la breve filastrocca:

nascita culla morte cimitero.

Andare, andare, eterni viandanti

del mondo, cogliendo saggezza

con la polvere, per le strade.

E poi, quietamente, a sera

in un prato di lupinelle,

tra il murmure grave del fiume,

contare a una a una le stelle.

 

 

 

 

 

 

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